Quello che presentiamo qui è il breve saggio “Quello che è mio è tuo. Il consumo collaborativo e altre forme di consumo relazionale” della sociologa dei consumi Daniela Ostidich di Marketing & Trade, appena pubblicato dal GruppoIl Sole24Ore. La semplicità dell’esposizione, la scorrevolezza del linguaggio e la sua brevità (solo 104 pagine) ci possono trarre in inganno sull’importanza dell’argomento; e le vittime principali soprattutto coloro che riflettono e operano sistematicamente nella distribuzione dei prodotti di largo consumo. E in modo particolare oggi, che quest’ultima, sotto la pressione dell’attuale crisi economica che sembra non finire mai autoriproducentesi da un macrosettore all’altro, accelera il percorso del suo ciclo naturale, che anche in Italia sembra giunto ormai alla sua maturità. E’ essa infatti che ne risente più che mai le conseguenze, soprattutto nell’imprenditorialità, nello sviluppo, negli investimenti e nella gestione. I principi che hanno fatto nascere e ispirato fino ad ora la distribuzione moderna sembra che si frantumino uno a uno ogni giorno più, tranne quello del libero servizio (nonostante la sua forte limitazione). Anzi l’impressione che il libro ci comunica è proprio quella di trovarci di fronte a una distribuzione vecchia, non solo perché per natura è, anche a causa della burocrazia, lenta nel suo sviluppo e che appare immancabilmente già attempata fin dall’apertura dei nuovi punti di vendita della sua rete e dei suoi luoghi di acquisto, ma soprattutto perché molti dei principi che fin qui l’hanno ispirata e l’ispirano ancora risultano decisamente obsoleti e quindi impropri. E questa volta senza pericolo di sbagliarci, tanto la tendenza risulta documentata. Il motivo è semplice e di un’evidenza chiarissima: il consumatore è cambiato e continua a mutare nelle sue aspettative e nei suoi bisogni, ma la distribuzione, presa com’è nella ricerca di una sua gestione sempre più fine, articolata e tecnologicizzata, è coinvolta perennemente in un cieco autoreferenziamento che le fa sottovalutare il cambiamento epocale che si prospetta; al massimo il suo sguardo è rivolto alla concorrenza che deve affrontare, anch’essa, fra l’altro, le stesse problematiche, negli stessi meccanismi e nelle stesse soluzioni. E invece il problema di fondo sta altrove: è il consumatore che cambia e continua a cambiare in modo profondo, imprevedibile e veloce, un consumatore che silenzioso sfugge, sornione, al suo potere di condizionatore diretto e indiretto, al suo marketing operativo. Peccato che il libretto, nella sua brevità, non si diffonda maggiormente sul fallimento di questo atteggiamento della macchina distributiva, a volte decisamente uscito di binario (e causa, spesso, di tanti fallimenti). Comunque lo fa supporre là dove descrive sinteticamente alcune nuove forme a cui molti consumatori ricorrono per rifornirsi dei beni quotidiani necessari, nonostante la spasmodica e disordinata rincorsa delle catene nell’inventare nuove forme e nuovi format (e di solito immancabilmente in ritardo). Non sta certo alla sociologia proporre soluzioni in chiave imprenditoriale e gestionali, ma esplicitare tendenze basate sui comportamenti umani e dare spunti di riflessione sì. Il suggerimento di base arriva alla fine del ragionamento, quando l’autrice afferma che bisogna ripartire (o ritornare?) dagli spazi fisici di vendita, perché è lì che l’uomo vuole relazione ed esperienza, come sempre è stato nella sua storia secolare quando si tratta di rifornirsi di cibo, di difendere il proprio corpo, di dotarsi di strumenti del vivere quotidiano e di sviluppare le sue idee. L’uomo è fatto così per natura (è un “animale sociale”, direbbe anche oggi il vecchio Aristotele) e non si capisce perché anche la distribuzione di prodotti di largo consumo quotidiano non dovrebbe essere puntualmente e profondamente coinvolta. Perfino l’ideologia e le infatuazioni tecnologiche non porteranno a nulla se non saranno inserite nella socialità delle persone e collegate a luoghi fisici dove il corpo si ritaglia il suo spazio individuale relazionante, se non si dà loro un senso legato all’esistenza. Ritornare ai punti di vendita fisici, quindi? Come tendenza e perno, forse sì. Non fosse che per il fatto che i punti di vendita offrono con chiarezza la possibilità di “una relazione sensoriale, emotiva e informastiva con il prodotto”. Per questo (ultimo accenno non secondario, ma vitale) è indispensabile che il commercio venga inserito in un’urbanistica della convivenza, della città, del villaggio. Ma qui il lavoro da fare è enorme. Soprattutto in Italia. Senza illudersi di riusolvere il problema della distribuzione adattando “intelligentemente” situazioni del passato o del presente. Opera inutile e dannosa, sembra dire il breve saggio della Ostidich. Un altro sasso nello stagno è stato lanciato. (I.M.)